Nessuno ha ancora capito come faccia a comprare televisioni, giornaloni e portieroni senza mai sborsare un euro. È il fascino irresistibilmente risparmioso di Urbano Cairo, stella imprenditoriale dell’estate nonché presidente dell’unica squadra italiana che abbia ancora la sua sede operativa a Milano: il Toro. Lo chiamano Mani di Forbice o Braccino, ma è un braccino fornito di artigli che al momento giusto sanno distendersi per ghermire la preda.

È riuscito a rinforzare la rosa, soddisfare i tifosi più malmostosi del mondo e catturare i riflettori dei media, di solito daltonici con il granata: il tutto incassando il doppio di quello che ha speso. Un genio. Le ultime notizie di ieri sera lo davano impegnato in una strenua trattativa per uno stopper con degli scozzesi. Che scontro fra titani.

Qui in curva i pensieri sono insolitamente positivi. D’accordo, la difesa è stata squartata e non del tutto ricomposta. E Acquah e Molinaro - sempre siano lodati - insistono nel non volersi sottoporre al trapianto di almeno un piede che li renderebbe dei fenomeni. Ma Ljajic appena smetterà di farsi male sarà una goduria, Valdifiori e Iago Falque hanno una dimestichezza con l’attrezzo sferico per noi inusuale, Peppe Vives è un capitano d’altri tempi, il Gallo mette dentro qualunque cosa si muova (quelle ferme sul dischetto lo annoiano e preferisce buttarle fuori), Martinez ha smesso di mirare le bandierine del calcio d’angolo e Boyé e Lukic sono due talenti in erba, di quelli che Cairo tra tre anni rivenderà al Napoli di De Lamentiis per un prezzo senza senso come ha appena fatto con Maksimovic, che tra una bua e l’altra non gioca titolare fisso dai giorni del governo Letta. E non è tutto: in panchina siamo passati da un ipnotizzatore di terzini a un teorico del «palla avanti e pedalare», quel gioco a folate che sta scritto nel Dna del Toro, e con Cairo al timone di Rcs contiamo di più nel Palazzo, tanto che ci hanno dato un rigore decisivo all’ultimo minuto a San Siro (lo abbiamo sbagliato perché ci manca l’abitudine).

Come ogni anno, un fratello di virus mi ha scritto: «Siamo da Europa». E, dopo una breve pausa di riflessione necessaria al raggiungimento dell’estasi, ha aggiunto: «Già, ma quale Europa?». Quella di Joe Hart, senza dubbio. Ho letto giudizi infamanti sul suo conto, neanche venisse a sostituire Neuer. Col massimo rispetto per il mio idolo Quattro Salti in Padelli, professionista serio e bravissima persona, questo spilungone britannico sarà anche un frequentatore sporadico di cappelle, ma ha parato rigori a Messi e colpi di testa ravvicinati a Ibrahimovic. E, venendo dalla squadra meno blasonata di Manchester, sa come si ribaltano i pronostici di certi derby impossibili.