Dopo otto anni e mezzo la storia giudiziaria del rogo alla ThyssenKrupp si chiude. La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna emessa dalla Corte d’Appello di Torino un anno fa. L’ex ad Harald Espenhahn è stato condannato a nove anni e otto mesi; i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz a sei anni e dieci mesi, il membro del comitato esecutivo dell’azienda Daniele Moroni a sette anni e sei mesi, l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno a otto anni e sei mesi e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafuer a sei anni e otto mesi. I quattro imputati italiani hanno già preso accordi per costituirsi in carcere tra venerdì sera e sabato mattina.

Il procuratore generale aveva chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza, perché le pene sarebbero troppo alte. I familiari delle vittime erano esplosi in un grido di rabbia: «Venduti».

Poi è stato il giorno della verità per la strage Thyssen: la quarta sezione penale della Cassazione, presieduta da Fausto Izzo, ha deciso di confermare le condanne ai sei imputati nel processo per il rogo nello stabilimento di corso Regina Margherita a Torino, scoppiato la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Morirono sette operai. Una lunga e straziante agonia: Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone se ne andarono nell’arco di venticinque giorni.

Sei dirigenti dell’acciaieria sono stati prima indagati e poi processati a Torino. Si tratta dell’amministratore delegato di Thyssen, Harald Espenhahn, dei dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, il membro del comitato esecutivo dell’azienda Daniele Moroni, l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. I magistrati torinesi Raffaele Guariniello, Laura Longo e Francesca Traverso hanno contestato l’omicidio volontario, accusa che ha retto in primo grado ma non in appello, dove è stata derubricata a omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente. Il 24 aprile 2014 i giudici della Cassazione hanno confermato la responsabilità degli imputati ma annullato una parte della sentenza di Appello, ordinando ai giudici torinesi di ricalcolare le pene.

Nel processo d’Appello bis, che si è chiuso il 29 maggio 2015, le pene sono state ridotte. Espenhahn è stato condannato a nove anni e otto mesi, con uno “sconto” di due mesi; Pucci e Priegnitz a sei anni e dieci mesi (sette anni), Moroni a sette anni e sei mesi (nove anni), Salerno a otto anni e sei mesi (pena ridotta di due mesi), Cafueri a sei anni e otto mesi (otto anni). La Cassazione doveva decidere se confermare queste pene, e non lo ha fatto. Già chiusa, invece, la contesa che riguarda i risarcimenti: ai famigliari delle vittime ThyssenKrupp ha pagato 13 milioni; altri 4 sono andati alle altre parti civili. L’accaieria di Torino, dopo l’incidente del 6 dicembre 2007, non ha mai più riaperto.

LA STORIA

La ThyssenKrupp è un’azienda tedesca, la più importante in Europa nel settore siderurgico. Nel 1994 ha acquistato la Acciai Terni, allora di proprietà pubblica, e con essa gli stabilimenti di Terni e Torino. Lo stabilimento di Torino viene presto ritenuto poco funzionale; ThyssenKrupp decide di concentrare la produzione a Terni e pianifica di chiudere la fabbrica di corso Regina Margherita nel 2005. Il progetto, però slitta anche a causa di una serie di imprevisti. Nel luglio del 2007 i sindacati e l’azienda firmano un accordo che sancisce la chiusura definitiva entro il settembre del 2008. La prima linea di cui si ipotizza la chiusura è la numero 5, quella su cui si verificherà l’incidente.

L’INCIDENTE

La notte tra il 5 e 6 dicembre, prima dell’una, sette operai al lavoro sulla linea 5 vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente, che prende fuoco. I Vigili del fuoco, la cui caserma dista poche centinaia di metri, arrivano quasi subito: è l’1,15. I feriti vengono trasferiti in ospedale. Alle 4 del mattino muore il primo operaio: si chiama Antonio Schiavone, ha 36 anni. Tra il 7 e il 30 dicembre ne muoiono altri sei: Giuseppe Demasi, 26 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Roberto Scola, 32 anni; Rocco Marzo, 54 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Bruno Santino, 26 anni. Tra gli operai coinvolti nell’incidente c’è solo un superstite: Antonio Boccuzzi, dipendente Thyssen da 13 anni e sindacalista della Uilm; oggi è deputato del Pd.

L’incendio si sviluppa all’altezza della linea di ricottura e decapaggio. La produzione dell’acciaio sulla linea 5 si svolgeva così: l’acciaio passava attraverso un laminatoio, costituito da alcuni cilindri che lo schiacciavano riducendone l’altezza; poi veniva avvolto in fogli di carta per evitare che si graffiasse e accumulato per poi passare alle fasi di ricottura e decapaggio.

La prima fase – il procedimento definito «a freddo», anche se avviene a più di mille gradi – prevede di far passare l’acciaio in un forno e cuocerlo a una temperatura inferiore a quella di fusione. Nella seconda fase l’acciaio cotto viene fatto passare dentro vasche piene di acido per rimuovere le ultime impurità.

L’intero procedimento è considerato ad alto rischio d’incendio. le misure di sicurezza prevedono estintori, sistemi di spegnimento automatico e un particolare addestramento per il personale. Per mantenere le lastre lubrificate si utilizza olio combustibile altamente infiammabile, che spesso impregna spesso la carta che avvolge le lastre. Prima del processo di ricottura la carta va eliminata. Il problema - si scoprirà dopo l’incidente - è che la manutenzione scarseggia e spesso i residui di carta si accumulano lungo la linea. Basta una scintilla perché la carta prenda fuoco. Senza contare le frequenti perdite d’olio, che formavano pozzanghere sotto i macchinari. Poche ore prima del rogo si verifica un piccolo incidente. La linea viene fermata. Poi l’impianto riparte. Che cosa succede dopo? Probabilmente da una delle linee che trasportano l’acciaio si scatena una serie di scintille che incendiano la carta oleata accumulata sotto la linea e mai rimossa. Si sviluppa un incendio. Gli operai - che si trovano al sicuro in una cabina protetta da cui seguono la lavorazione - escono per spegnerlo.

Uno di loro, Boccuzzi, si allontana per collegare una manichetta all’idrante che i suoi colleghi impugnano. Ma l’incendio si alimenta delle chiazze di olio, le fiamme si alzano, sfiorano uno dei tubi che portano ad altissima pressione l’olio per lubrificare. Il tubo si rompe e l’olio comincia a fuoriuscire. La pressione crea una pioggia di gocce scagliate ad alta velocità che generano una palla di fuoco che investe tutti gli operai. L’effetto è quello di un gigantesco lanciafiamme. Boccuzzi si salva: in quel momento si trova dietro a un muletto. E Boccuzzi oggi parlamentare e deputato Dem ha detto: «Le richieste della procura sono per noi tutti un fulmine a ciel sereno e lo stesso vale per il rischio che i due imputati tedeschi, che sono poi i principali responsabili del rogo alla Thyssen, possano scontare in Germania una pena dimezzata». «Sarebbe paradossale - ha proseguito Boccuzzi - che l’amministratore delegato di Thyssen, che in primo grado era stato condannato per omicidio volontario, adesso possa ottenere in Germania una pena addirittura inferiore a quella degli altri coimputati italiani». «A fronte di questo rischio - ha concluso - è ancora più profonda la nostra delusione per l’annullamento della sentenza di primo grado».

LE INDAGINI

Dopo il rogo, lavoratori e sindacati denunciano una situazione da tempo fuori controllo. Nei giorni precedenti all’incidente la fabbrica si trova a corto di personale perché alcuni operai sono stati licenziati mentre altri già trasferiti a Terni. Quelli rimasti sono costretti a turni pesantissimi e agli straordinari per mantenere continua la produzione. Le testimonianze di Boccuzzi e degli altri operai accorsi sul luogo dell’incidente parlano di estintori scarichi, telefoni isolati, idranti malfunzionanti, assenza di personale specializzato. Non solo: alcuni degli operai coinvolti nell’incidente lavoravano ininterrottamente da dodici ore, avendo accumulato quattro ore di straordinario.

Oltretutto procura e vigili del fuoco scoprono che nei mesi passati si sono verificati alcuni piccoli focolai causati da scintille che incendiavano la carta oleata, gestiti dagli operai senza mai avvertire il 115. Soprattutto scoprono che l’azienda sconsigliava apertamente agli operai di premere il pulsante che avrebbe portato all’arresto della linea: in quel caso, infatti, l’acciaio sui nastri si sarebbe bloccato nel forno per la ricottura o nelle vasche di acido, diventando inutilizzabile. La notte dell’incidente nessuno bloccò la linea, fatto rilevante secondo la procura di Torino, emblematico del clima che si respirava in fabbrica: a febbraio del 2008 la linea 5 sarebbe stata chiusa, le misure di prevenzione e sicurezza erano state abbandonate da tempo.

La ThyssenKrupp nega subito qualsiasi responsabilità. Accusa gli operai morti di avere provocato l’incidente, causato da una serie di distrazioni o omissioni. Poi aggiusta il tiro e parla di «errori dovuti a circostanze sfavorevoli». Durante le indagini la Guardia di Finanza sequestra all’amministratore delegato Espenhahn un documento riservato in cui si ipotizza di avviare azioni legali contro Boccuzzi, ritenuto colpevole di raccontare a giornali e tv la tragedia dei suoi colleghi. Il documento critica pesantemente anche il pm Guariniello e l’allora ministro del Lavoro del governo Prodi, Cesare Damiano, considerato troppo vicino ai lavoratori.

I PROCESSI

Le indagini si chiudono in meno di un anno: il 17 ottobre 2008 la procura chiede il rinvio a giudizio per sei dirigenti dell’azienda. Il 18 novembre il giudice dell’udienza preliminare Francesco Gianfrotta dispone il processo per tutti e accoglie le tesi dell’accusa: il reato contestato è omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso.

«Pur rappresentadosi la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza di più fatti e documenti e accettando il rischio del verificarsi di infortuni anche mortali sulla linea 5», scrive Gianfrotta, i dirigenti avrebbero causato la morte dei sette operai omettendo «di adottare misure tecniche, organizzative, procedurali, di prevenzione e protezione contro gli incendi». Il processo comincia nel gennaio del 2009. Sfilano i testimoni: lavoratori, sindacalisti. Emergono nuovi particolari: non solo le misure di sicurezza erano state ridimensionate, non solo le manutenzioni erano pressoché inesistenti ma la fabbrica veniva pulita solo in corrispondenza alle visite dell’Asl. E l’impianto si fermava solo in caso di guasti gravi, altrimenti si interveniva con la linea in movimento.

Il primo luglio del 2008 la ThyssenKrupp versa quasi 13 milioni alle famiglie dei sette operai morti, che non si costituiscono parte civile. Nell’aprile 2011 il Tribunale di Torino condanna in primo grado Espenhahn, a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario. Pucci, Priegnitz, Cafueri e Salerno a 13 anni e 6 mesi. Moroni a 10 anni e 10 mesi. Nel febbraio 2013 la Corte d’Appello ha respinto in secondo grado l’ipotesi di omicidio volontario, condannando gli imputati - stavolta per omicidio colposo - a pene comprese tra 7 e 10 anni. L’anno successivo la Cassazione dichiara accertato il rato ma rinvia gli atti a Torino perché le pene vengano rideterminate. Il 29 maggio 2015 la Corte d’Appello di Torino emette una nuova sentenza, quella che ora è all’esame della Cassazione.

Lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp non esiste più. È stato chiuso nel marzo del 2008 con un accordo tra la ThyssenKrupp, i sindacati, le istituzioni locali e i ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico, in anticipo sulla data prevista.

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