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Nave contro banchina nel porto di Napoli, ci sono dei feriti

Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere

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Ricordo ancora quando nell'autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano "la Repubblica" che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. "Dall'alpi alle Piramidi", scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.

Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l'Italia un'assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l'abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l'obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il "Corriere della Sera"? Sì, anche il Corriere, anzi l'obiettivo è proprio quello.

Il pubblico accoglieva quest'ultima risposta da un lato ridendo e dall'altro applaudendo. E poi, giù il sipario.

L'inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.

E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.

Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent'anni quando Repubblica vide la luce.

L'altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l'elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal '19 al '22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle "Case del popolo", così come era stato un fiero interventista nella guerra del '15, appoggiando D'Annunzio che ne era la bandiera.

Centoquarant'anni da un lato e quaranta dall'altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall'altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l'opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell'influenzare quell'opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?

***

Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, "fordismo" come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l'estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all'estero, preferibilmente liberal-conservatori.

Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d'esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l'altra metà nel resto d'Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.

Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.

Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l'Italia a livello delle altre potenze europee.

Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall'efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d'Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell'Istituto.

Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.

Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell'industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.

I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.

Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.

Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d'accordo, tant'è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.

Quando nacque Repubblica c'era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent'anni prima era già nato l'Espresso, il settimanale "genitore" del quotidiano. E l'Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l'influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant'anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.

Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.

***

Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l'ho già accennato all'inizio di quest'articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d'essere approfondito.

La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama "liberal" che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull'uso ed il senso della parola "ideologia" che lessicalmente significa adesione ad un'idea e perciò anche sostenere che "liberal" è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un'ideologia.

Comunque il significato reale della parola "liberal" consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l'andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c'è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.

Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.

Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c'è la parola liberale ma c'è anche liberista, libertario, libertino.

A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.

Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l'ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell'eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.

Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l'accento a volte più sulla libertà e a volte sull'eguaglianza, purché l'altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.

Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l'appartenenza all'uno o all'altro.

Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.

Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d'Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.

Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.

Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.