È un brizzolato uomo di 72 anni quello siederà questa sera in tribuna accanto al presidente Luca Di Masi. Ma Gianni Rivera vive la sua «terza età» da moltissimo tempo: «Un vecchio di 17 anni» titolava una rivista sportiva del 1960 dubito dopo il suo passaggio dall’Alessandria al Milan. Il fatto è che lui ha dovuto invecchiare in fretta in un mondo che ammirava il talento, ma rispettava l’anzianità. Così finì che dovunque andasse, qualunque cosa facesse almeno nei suoi primi vent’anni di vita era sempre il «ragazzino». Quel bambino che un giorno, nel parterre attorno al rettangolo di gioco dello stadio Moccagatta, fu deriso dagli amici più vecchi solo perché «osò» proporre lui di spostarsi in un altro punto per vedere meglio l’allenamento dei grigi, invece di tacere e seguire il gruppo; imparò subito il peso delle gerarchie. Se quell’episodio insignificante lo ricorda ancora, sessant’anni dopo, vuol dire che qualcosa nel suo carattere l’ha lasciato. Il primo passo per diventare adulti è capire le regole del gioco della vita e lui è stato costretto ad applicarsi quando ancora portava i calzoni corti, ma lo facevano giocare con i grandi.

Amore-odio

Se qualcuno srotolerà questa sera uno striscione anti-riveriano difficilmente farà breccia nella corazza di un uomo che s’è temprato in oltre mezzo secolo di notorietà e che probabilmente conosce bene i suoi concittadini, perché in gran parte condivide con loro un carattere non facile da spiegare ai forestieri. Ad esempio c’è quest’odio-amore con gli alessandrini, che divide anche le generazioni di tifosi: più orgogliosi del concittadino e accondiscendenti quelli degli Anni ’40/50/60 che hanno vissuto, come lui, un periodo di fame e di opportunità da sfruttare, cosa riuscita quasi sempre il «golden boy»; più arrabbiati e malevoli quelli venuti dopo, che gli rimproverano di «non aver mai fatto nulla per la squadra e la città che tanto invece hanno fatto per lui», di arrivare al punto di non citarla mai, insomma di essere un egoista baciato da un destino invidiabile (e, appunto, invidiato). Mal di pancia di provincia, dirà qualcuno.

Il libro solo sul web

In realtà Rivera Giovanni, detto Gianni per volere della madre e sfida all’anagrafe, Alessandria non l’ha dimenticata se ai suoi primi 18 anni in città dedica almeno cento delle 500 pagine della sua autobiografia, monumentale nella grafica, sincera nei contenuti fino all’ingenuità. Fisicamente un libro-monstre, intitolato «Gianni Rivera ieri e oggi», tomo che s’è fatto da sè e da sè vende (acquistabile solo sul suo sito web) e pubblicizza: oggi pomeriggio, ad esempio, alle 18 ne parla a Torino al Circolo della Stampa Sporting di corso Agnelli 45, tra i cui soci c’è anche Altafini, probabilmente presente (organizza «A scuola di ... Sport). Poi andrà allo stadio.

Pagine sulla città

Fra le pagine, per i nostalgici o gli amanti di storia locale ci sono molte immagini e ritratti della famiglia Rivera, ma anche della città com’ era: la casa di ringhiera di via Pastrengo, nel «canton di rüs» (l’«angolo dei rossi», per via della forte presenza proletaria), la cascina e la trattoria dei nonni a Valle San Bartolomeo, il maestro di scuola (la «Bovio») che dava righellate sulle nocche al minimo errore, l’oratorio dei salesiani e lo stadio quasi dietro casa, col «guardaportone» Pierino Zorzoli che sembrava burbero ma poi faceva di tutto per far entrare gratis «cüi quattr fanciòt», quei quattro ragazzini. E su tutto, sempre il pallone, un’ossessione: «Provavo delle sensazioni uniche quand’ero sul prato verde di Piazza d’Armi oppure sui campi di calcio veri e propri. Mi sembrava di non appartenere più al mondo, di muovermi in uno stato di esaltazione continua finché la stanchezza non prendeva il sopravvento. Da piccolo, a parte l’intermezzo della scuola, del mangiare e del dormire passavo le giornate a tirar calci».

Ultima vera gloria

Per questo dice: «A ripensarci non provavo emozioni particolari. A me è sempre sembrato tutto naturale». Come non invidiare, e odiare, uno così, benedetto dal Dio del football, ma sempre tanto trattenuto, consapevole, serio, tutti aggettivi all’epoca apprezzati ma diventati nel tempo denigratori, indicativi di persona mai spontanea, che all’apparenza non ci mette mai il cuore (ma se fosse quello il suo vero modo di essere, plasmato fin da piccolo?) Come non ripensare a quell’Alessandria che anche grazie a Rivera visse l’ultimo spicchio di gloria calcistica, prima dell’invisibilità delle serie minori. Un «tradimento» il suo alla terra che l’ha generato? Ma per favore, già allora come oggi era solo questione di soldi: 125 milioni incassarono i grigi per quel «ragazzino» che pagavano - come rimborso spese - 30 mila lire al mese per i primi due mesi e poi 80 mila fino a fine stagione: «Il doppio di quanto guadagnava mio padre, mi vergognavo un po’». S’era diplomato alle commerciali, benché «economizzando» sui voti, e imparò presto a fare i conti e a farsi gli affari propri. Anche in questo un tipico alessandrino.

BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
I commenti dei lettori