“È tempo di riaprire il processo per fare definitivamente chiarezza su una delle pagine più buie della storia torinese e nazionale”. Con le parole pronunciate da Fosca Nomis, giovane e tenace presidentessa della commissione antimafia torinese, oggi per la prima volta il capoluogo piemontese spazza via la storia ufficiale dell’assassinio di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino ucciso il 26 giugno del 1983. L’unico magistrato ammazzato dalla ‘ndrangheta nel nord Italia stando alla versione ufficiale scritta nelle sentenze. Ma secondo la nuova denuncia presentata pochi giorni fa alla Procura di Milano dal legale della famiglia Fabio Repici, che ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare, Caccia è stato invece vittima di un’unica e più ampia “rete criminale che aveva pressoché fagocitato la gestione dei Casinò del nord Italia e della Costa Azzurra, sotto il controllo di esponenti delle mafie catanesi, palermitane, calabresi, corse e marsigliesi”. Una rete che ha goduto di inspiegabili “trattamenti di favore” da parte di alcuni esponenti delle istituzioni nel corso delle indagini.

Nella nuova denuncia che chiede la riapertura del caso, presentata il 17 giugno e indirizzata al pm di Milano Marcello Tatangelo, l’avvocato Repici elenca una serie di elementi che rafforzano l’ipotesi investigativa già contenuta nei due esposti precedenti, chiedendo alla magistratura milanese di sentire nuovi testimoni sul delitto. A partire da quel Domenico Belfiore, unico condannato come mandante dell’uccisione, boss della ‘ndrangheta scarcerato da pochi giorni a causa di gravissimi problemi di salute, che sulla morte del procuratore si è sempre dichiarato innocente.

L’attenzione del legale, che ha lavorato alle indagini difensive insieme al magistrato in pensione Mario Vaudano, già giudice istruttore a Torino sotto la guida di Caccia, è puntata su alcune anomalie contenute nelle indagini che negli anni Novanta hanno condotto alla versione ufficiale sulla morte del capo della procura torinese e che erano condotte dall’allora campione dell’antimafia, pm Francesco Di Maggio (il cui nome ritorna nell’inchiesta sulla trattaiva Stato-mafia). “La principale (quasi esclusiva) fonte di prova sulla quale venne fondata l’intera impalcatura accusatoria, cioè il collaboratore di giustizia Francesco Miano, era stato un prodotto di attività del Sisde” scrive Repici. “Nella storia dei processi alla criminalità organizzata Miano è probabilmente l’unico pentito che risulta ufficialmente essere reclutato dal Sisde”.

La sua collaborazione, nel 1984, scrive la parola fine sulla pista investigativa che fino a quel momento conduceva al Casinò di Saint Vincent e che la procura di Bruno Caccia aveva individuato come una delle basi per il riciclaggio dei proventi dei sequestri di persona. Per questo la denuncia invita l’autorità giudiziaria ad ascoltare anche alcuni magistrati che “possano riferire sulle anomalie che hanno accompagnato l’azione giudiziaria a Milano negli anni Ottanta nei confronti di Cattafi”. Il riferimento è a Rosario Pio Cattafi, boss siciliano indicato dai pentiti come trait d’union tra cosa nostra e servizi segreti e che il documento indica come ulteriore ipotetico mandante del delitto.

Altre anomalie, secondo la denuncia, riguardano “esplicite ingerenze” del pm Di Maggio “nei confronti di altri magistrati” titolari di altri processi per sequestri di persona. Interventi “inspiegabili e tutti all’apparenza coerentemente tesi a tenere nascosti elementi indiziari a carico di Cattafi”. Come quello operato da Di Maggio sulle intercettazioni eseguite a carico del boss Cattafi nell’ambito del processo per il sequestro Agrati e sottratte in maniera anomala dal procedimento.

Nuovi elementi all’indagine giungono anche da Carlo Calvi che nel corso degli accertamenti sulla morte del padre Roberto, avrebbe raccolto prove documentali “circa il controllo esercitato dalla loggia P2 sul casinò Ruhl, diretto, in quel quadro, da Jean Dominique Fratoni” e sulla frequentazione di quel casinò da parte di “personaggi calabresi coinvolti nel sequestro Mazzotti”. Dati non secondari, non solo perché Dominique Fratoni è stato indicato dai pentiti (ma mai condannato per questo) come boss della mafia Corsa, ma anche perché lo stesso Cattafi risulta tra i frequentatori del casinò e con lui, tra i calabresi coinvolti nel sequestro di Cristina Mazzotti, il pluriomicida Demetrio Latella, quel “Luciano” Latella che la denuncia indica come uno degli ipotetici esecutori materiali dell’omicidio Caccia.

“Si sono rinvenute tracce documentali di canali di finanziamento dal banchiere Roberto Calvi, dietro l’interessamento di Licio Gelli e Umberto Ortolani, a esponenti impegnati nella gestione del Casinò Ruhl di Nizza che sono risultati legati anche ai personaggi interessati alla gestione del Casinò di Saint Vincent e alla rete criminale operante intorno a quella struttura” si legge nel documento. Una rete che coinvolgeva i mafiosi “Benedetto Santapaola, Luigi Miano, Rosario Pio Cattafi e Angelo Epaminonda” e di cui sarebbero provati i rapporti con Domenico Belfiore.

“Sappiamo che Latella continuava a delinquere in carcere, accrescendo il suo ruolo criminale, grazie ai rapporti con l’amministrazione penitenziaria” ha detto oggi in commissione antimafia a Torino Repici “vogliamo capire se c’è un qualche nesso tra la sua mancata iscrizione nel registro degli indagati nel procedimento Caccia, nonostante i diversi indizi a suo carico, e il trattamento di favore di cui ha goduto successivamente”. Latella, nonostante il suo passato giudiziario, dal 2007 è in libertà. Di nuovo nomi che scompaiono dal fascicolo Caccia. E, di nuovo, che godono di benefici in cerca di spiegazione.

Il cerchio si chiude con il tentato omicidio del Pretore di Aosta Giovanni Selis, anch’egli nei primi anni Ottanta impegnato in indagini sul Casinò e oggetto di un attentato dinamitardo da cui rimase miracolosamente illeso il 13 dicembre 1982. Solo sei mesi prima dell’uccisione di Bruno Caccia e con esplosivo di origine francese. Selis stesso, sentito dai magistrati di Milano, aveva indicato nelle sue indagini sul casinò uno dei possibili moventi dell’attentato a suo carico e di un possibile “collegamento fra le mie indagini e quelle del collega Maddalena (della procura di Torino, ndr.), aventi ad oggetto riciclaggio di denaro proveniente dai sequestri di persona”.

L’origine dell’attentato non venne mai scoperta, né il pretore Selis venne mai sentito nell’inchiesta sull’omicidio Caccia, “fino a che ciò divenne impossibile, nella primavera del 1987, per il suo tragico suicidio”. La sua testimonianza resta confinata alla parole del Pretore ai giornali. Pochi mesi dopo l’assassinio del Procuratore di Torino dichiarò che “Caccia era un caro amico” e di essere “rammaricato” per come l’attentato di cui era stato oggetto “fosse stato minimizzato”. Selis disse al cronista che “non si era riflettuto sui fatti”. Il punto è che per la famiglia di Caccia, per il suo legale e adesso anche per la città di Torino, si è continuato a non farlo fino ad oggi, per più di 30 lunghi anni.

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