La storia

"C'è poca cultura sportiva
E io mi tengo Giuseppe Meazza"

Mario Fossati, decano dei giornalisti italiani, racconta il suo rapporto con il calcio: "Resta bellissimo, ma certi programmi televisivi sono un incitamento alla violenza". Con il rimpianto per il gioco di una volta e il mitico fuoriclasse di Inter e Nazionale: "Era una luce in campo, a livello di Maradona sia pure a fiammate"
di ENRICO CURRO'
7 minuti di lettura
Fossati, gli italiani tornano a delirare per il campionato che è appena ricominciato.
"E a me torna in mente, come se fosse ora, la prima partita di serie A che ho visto: Ambrosiana-Padova, all'Arena di Milano, che adesso è intitolata al mio amico di una vita, Gianni Brera. Avrò avuto dieci anni. Mi ci portò in tram, da Monza, mio padre Luigi, sindacalista cattolico. Finì 3-2 per l'Inter, che sotto il fascismo aveva dovuto cambiare nome, con un rigore di Meazza che probabilmente non c'era. In quel Padova lì giocava Rocco. Meazza e Rocco sono due tra le persone migliori che ho poi conosciuto, da giornalista sportivo".
Dai primi anni Trenta a oggi il rito del calcio in Italia resiste ancora, malgrado la crisi economica, gli scandali perenni, la concorrenza degli altri spettacoli e l'inflazione delle partite in tivù: perché?
"Perché il calcio è diventato uno sport pieno di brutture e di distorsioni, però resta il più seguìto. E' il più duro: prevede il contatto fisico ad alta velocità. E' soggetto agli imprevisti del campo e del clima, che costituiscono ulteriori traumi. Contempla enormi pressioni, mediatiche e ambientali. Un conto è giocare al coperto, sul parquet di un palazzetto, davanti a diecimila persone. Un altro è trovarsi all'aperto, in uno stadio da novantamila. Se il calcio attira più sponsor di tutti e centinaia di milioni di telespettatori, non è mica per caso".
Ma in tempi di crisi certi stipendi gridano vendetta.
"I dieci-venti campioni che di fatto generano il business incassano in proporzione. Qualcuno forse si scandalizza per quello che guadagnano i grandi attori di Hollywood? Il calcio professionistico ha cambiato natura. E' un prodotto del mercato capitalistico e ne subisce la logica implacabile. Per fare audience e ottenere ricavi, deve essere competitivo. I contratti sono ingigantiti dalle commissioni degli intermediari, le società in affanno ricorrono ai bilanci fasulli. Non è una scoperta di oggi".
Qual è, allora, la vera malattia?
"L'assenza di cultura sportiva, che costa fatica. Il vero vizio è il provincialismo, l'ignoranza della storia. Il presente lo capisci e lo interpreti soltanto se conosci anche il passato e lo hai studiato, altrimenti scivoli nella superficialità. Spesso si mitizzano figure di secondo piano. Alla televisione ci sono dibattiti calcistici quotidiani sul nulla, sette giorni su sette".
Il calcio è l'oppio del popolo italiano.
"La gente è stata incantata dallo sport: è uno spettacolo bellissimo, ma non bisogna esagerare nel descriverlo. Certi programmi televisivi sono un incitamento alla violenza. Ognuno fa il tifoso di una squadra. Un calciatore segna un gol e sembra che abbia fatto un miracolo. L'allenatore viene messo sotto accusa per cose che non stanno né in cielo né in terra. I violenti vanno condannati, certo, ma per anni i club li hanno aiutati. E poi ci sono stadi in cui la partita, fisicamente, non si vede. La vita di un carabiniere o di un poliziotto vale più di una partita di calcio. E non dimentichiamo che la forma, almeno nello sport, è sostanza".
In che senso?
"Una volta era la squadra di casa a cambiare maglia, così il pubblico capiva il messaggio: rispettare la squadra ospite. E basta con gli attacchi agli arbitri: sono sempre sotto accusa, anche se nel settanta per cento dei casi hanno ragione e sono migliori di tutti noi".
Quindi niente moviola in campo?
"Il vero sportivo non ricusa mai il proprio giudice. Le moviole televisive sono una sciagura culturale. E la moviola in campo non eliminerebbe le discussioni. Il problema nasce sempre dal fatto che il pubblico viene considerato una massa informe, facilmente manipolabile. E un po' anche dalla perdita del senso della realtà da parte dei dirigenti, basti pensare all'abnorme numero di calciatori professionisti".
Troppi?
"Troppi sì. I fanfaroni hanno trasformato la serie C di una volta, che era importante, in un ibrido insulso. Io andavo a vedere i miei compagni di scuola, che facevano gli operai. Poi, quando c'erano le grandi partite a Milano, si andava all'Arena o a San Siro, come i melomani vanno alla Scala: magari nel loggione, però alla Scala. E quando vai alla Scala, sei un critico raffinato. Quando invece vai al Politeama di Monza, senti cantare la figlia dell'ortolano e ti interessi, grazie alla cultura che ti sei fatto alla Scala".
Ma ormai non c'è bisogno di andare alla Scala: la tivù porta il calcio di tutto il mondo in casa a ogni ora del giorno.
"Appunto. Lo sport va visto dal vero, per conoscerlo e per poterlo apprezzare. Non è questione di nostalgia. In quella serie C lontana crescevano comunque fior di giocatori. Se erano bravi, diventavano campioni: penso a Valentino Mazzola, il capitano del grande Torino, che all'inizio giocava per l'Alfa Romeo Milano, dove lavorava. Tirava da trenta metri, aveva un'elevazione di due: si vedeva già che era una mezz'ala fortissima. Oggi un calciatore di terza serie ha lo status di professionista, ma la patente non equivale alla garanzia di essere un calciatore autentico".
Da Meazza e Valentino Mazzola a Maradona, Pelé, Cruyff, Ronaldo e Messi: chi è il migliore?
"Ogni paragone tra calciatori di generazioni diverse è sempre forzato. Sono cambiati la velocità, i palloni, i campi, le scarpe, il contatto fisico. Oggi il ritmo è frenetico, una volta si congelava il gioco. Però non è giusto che in questi confronti venga sistematicamente ignorato il calcio prima della televisione, forse perché i filmati dell'epoca non rendono giustizia ai giocatori, che sembrano tutti "Ridolini"".
Invece?
"Invece era uno sport durissimo: terreni infami, palloni pesantissimi, avversari che spesso rompevano le gambe nel vero senso della parola. Peppino Meazza, per intenderci, merita eccome che gli sia stato intitolato lo stadio di San Siro e non solo perché è stato un grande milanese".
 
Giuseppe Meazza, il tributo su YouTube


Come lo descriverebbe?
"Come una luce sul campo: lanci di trenta metri, pallone che cadeva perfettamente davanti al compagno, pronto da giocare. Negli allenamenti del giovedì piazzava una berretta col pon-pon sulla traversa, tirava da fuori area e nove volte su dieci la spazzava via. Diceva Gipo Viani che un passaggio di Meazza arrivava prima e aspettava solo di essere calciato. Era un leader".
Ma il fòlber, come veniva chiamato il calcio degli Anni Trenta storpiando la parola inglese football, era molto casereccio.
"Questa è una semplificazione. Per me Meazza era al livello di Maradona, sia pure a fiammate. Se vinse soltanto, si fa per dire, due Coppe del Mondo, due Coppe Internazionali e due scudetti, è perché in Coppa Europa, l'equivalente della Champions League di adesso, i giocatori italiani facevano di tutto per farsi eliminare subito. "A fine campionato - mi raccontava Peppino - noi volevamo andarcene in vacanza". Lui parlava in dialetto, ma era di un'intelligenza raffinata. Anche Rocco, del resto, parlava nel suo dialetto, di Trieste. E anche lui era un uomo d'ingegno".
Rocco viene identificato col catenaccio, etichetta che all'estero, per estensione denigratoria, ha connotato dagli Anni Sessanta la furberia spiccia del popolo italiano, fino a quando nell'Europeo dello scorso Prandelli non l'ha finalmente spazzata via.
"Altra classificazione superficiale. Ogni tattica è figlia del tempo in cui nasce. Prendiamo il "Sistema" inglese degli Anni Venti: nacque da una diatriba sindacale tra i calciatori sulla quantità e la qualità dello sforzo, che alcuni volevano fosse distribuito in parti uguali. Sulle implicazioni sociali e storiche della tattica calcistica Brera condusse infinite battaglie filosofiche. Sosteneva che l'attacco snatura l'italiano, perché è abituato a difendersi, mentre per temperamento gli stranieri vanno all'attacco. Diceva che invece l'italiano, se lo metti con le spalle al muro, viene fuori e si dà completamente. Ciò non significa sminuire la grande scuola tattica italiana, da Vittorio Pozzo, a Bearzot a Lippi: non importa se un grande tecnico non va d'accordo con la critica, l'importante sono i risultati. Ma Brera è stato spesso travisato dai suoi detrattori: gli hanno dato perfino del razzista".
La teoria della provenienza etnica che favorisce o sfavorisce la prestazione sportiva era sua.
"Facciamo l'esempio dei neri. Gianni diceva semplicemente che, se avessero avuto le stesse possibilità dei bianchi, cioè di nutrirsi nello stesso modo, di andare all'università, di entrare negli stessi circoli, avrebbero vinto anche nelle discipline appannaggio dei bianchi. Il caso delle sorelle Williams nel tennis è la conferma che aveva ragione".
Serena Williams ha appena vinto l'oro a Londra: le Olimpiadi dimostrano, più ancora del campionato di calcio, quanto ormai il business abbia snaturato lo sport.
"Io di tutti i Giochi che ho seguito, da Roma '60 a Seul '88, ho un ricordo bellissimo. Parlo del piano sportivo, ovviamente, perché la strage di Città del Messico '68 e l'attentato di Monaco '72 fanno parte di un altro discorso. Era magnifico trovarsi lì, ti sentivi coinvolto nell'esperienza più importante della carriera di quegli atleti, che tecnicamente erano enormi davvero. Uno dei ricordi più indelebili è il salto in lungo di Beamon a Città del Messico: atterrò oltre il raggio dei misuratori ottici, gli ufficiali di gara furono costretti a prendere il metro d'acciaio".
Su alcuni campioni olimpici, come purtroppo l'azzurro Schwazer, c'è l'ombra del doping.
"In uno dei miei primi Tour de France, al seguito della corsa c'era tra gli altri Roland Barthes, il grande sociologo. Malléjac, un corridore francese, si accasciò dopo uno scatto, colto da una tipica crisi da doping. Barthes scrisse che la "bomba" era una parodia dello scatto e che drogare Malléjac era stato sacrilego, come volere rubare a Dio la scintilla. Ecco, il doping con cui si vuole rubare la scintilla a Dio purtroppo non è una novità, né una prerogativa degli sport individuali, dove però farla franca è più difficile".
Il ciclismo, che lei seguì a lungo dai tempi di Coppi e Bartali fino alla parabola tragica di Pantani, è lo sport del doping per eccellenza.
"Forse anche perché lì, a differenza di altre discipline, i controlli a sorpresa si fanno sul serio. I corridori non sono i soli a sbagliare, ma sono i soli a pagare. Lo sponsor vuole vincere, paga il campione e lo considera un manifesto da appiccicare a ogni cantonata. In più c'è l'ansia del recordismo, della prestazione ad ogni costo, e c'è un calendario insostenibile. La chimica aiuta. Il calendario di una volta era diverso e io credo che per Coppi e Bartali garantisca la longevità agonistica. Con Coppi viaggiai personalmente per i velodromi di mezza Europa: pasteggiava a fiocchi d'avena e champagne".
Lo considera il più grande sportivo italiano di ogni tempo?
"Era costruito per la bicicletta. Lo vedevi a piedi ed era sgraziato, negato per correre: in sella diventava magnifico. Quell'Italia era alta venti centimetri, veniva fuori dalla guerra e la gente non aveva più nemmeno la forza di ridere. Gliela restituì quel ciclismo, con le vittorie di Bartali, Coppi e Magni: con loro i giornali facevano tirature enormi, molto più del calcio, a parte la tragedia del grande Torino a Superga. Il sorpasso del calcio arrivò per due concomitanze: il cambio della formula del Tour, da corsa per squadre nazionali a corsa per squadre di sponsor, e le prime vittorie del calcio italiano nelle coppe europee".
Ormai, però, il suo televisore è sempre sintonizzato sulle gare d'ippica.
"E' un ritorno al mio primo amore sportivo: era il 1937, avevo 15 anni e il padre del mio amico Marcello era un addetto al reparto stalloni dell'ippodromo di Mirabello, nel parco di Monza. Rimpinzavamo Pilade, un campione internazionale, di avena e carote. Oggi l'ippica, che significa migliaia di posti di lavoro, subisce attacchi continui. Qualche anno fa c'era il pericolo che mettessero le mani sull'ippodromo di San Siro, ma la mia rubrica sulle pagine milanesi di Repubblica diede l'impulso alla nascita di un comitato di cittadini, che bloccò i cementificatori. Io so purtroppo, per esperienza, che prima o poi non ci sarà niente da fare, se gli speculatori insistono".
L'ecologismo contro il business del calcio: non è una battaglia persa?
"Viviamo in un paese in cui una curva sulla pista dell'autodromo di Monza vale più degli alberi del più grande parco recintato d'Europa. Eppure, la Formula Uno di oggi è un po' come se si facessero correre le auto da città su una pista per macchinine, serve soltanto a tenere in piedi uno sport gestito dagli sponsor. Ma tutto questo non è una buona ragione per smettere di combattere o per lasciarsi sequestrare il cervello dalla televisione, con le trasmissioni di calcio parlato. Il rischio è che certi bellimbusti finiscano per credere davvero alle cose che dicono".