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CRONACHE
L'ultima intervista di Don Giussani al Corriere
Io e i ciellini, la nostra fede in faccia al mondo
Ottobre 2004: così il «Gius» raccontava al nostro giornale i 50 anni del suo movimento, Comunione e Liberazione
MILANO - «Ricordo che la scelta del Berchet fu assolutamente casuale, come un sasso lanciato nel cielo. Mentre salivo i gradini che portavano all' interno del liceo, non avevo idea di chi mi sarei trovato davanti. Vi erano raccolti i giovani rampolli della Milano bene, che non conoscevo e di cui nessuno si occupava allora...».
La voce di monsignor Luigi Giussani è roca e fragile come un sospiro ma lo sguardo è sempre quello che i ragazzi del «don Gius» conoscono bene, gli stessi occhi che nelle immagini in bianco e nero di cinquant' anni fa spuntavano da sotto il basco di quel sacerdote trentenne, brianzolo di Desio, che un bel momento decise di lasciar perdere l' insegnamento nel seminario di Venegono e di gettarsi nella mischia, la grande città dei «fabbriconi» di Testori. Sarà stata la fede di mamma Angela o il temperamento di papà Beniamino, intagliatore di legno, restauratore e socialista anarchico.

Fatto sta che «il Gius» compie oggi ottantadue anni e i suoi ragazzi festeggeranno domani, con un pellegrinaggio a Loreto, il mezzo secolo del movimento nato nel liceo milanese e oggi diffuso in 70 Paesi. Perché i giovanotti sui gradini del Berchet formarono Gioventù Studentesca che poi divenne Comunione e Liberazione. Lui, per la verità, ha scritto al Papa: «Non solo non ho mai inteso "fondare" niente, ma ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l' urgenza di proclamare la necessità di tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».

Monsignor Giussani, la scelta del Berchet fu casuale...
«... Almeno quanto l' incontro improvvisato con un gruppo di giovani, qualche tempo prima, su un treno per Rimini. Parlando con loro, li avevo trovati profondamente ignoranti di che cosa fosse il cristianesimo. Così quell' incontro provocò in me la richiesta ai superiori di lasciare la docenza nel seminario per l' insegnamento liceale. Mi fu assegnata scuola di religione nel Berchet di Milano».

E lei come si regolò, da quel primo giorno in prima E?

«Il criterio ultimo che adottai in classe fu di esaltare un rinnovato fervore in quei giovani, tentando di comunicare la fede di un popolo cui io avevo partecipato. Questo dicevo a me stesso inoltrandomi in quel primo giorno di scuola. Da parte dei ragazzi ho subito notato un interessamento franco e, specialmente in taluni, anche agitato».

Agitato?

«Sì, ascoltandomi parlare a lezione, l' animo di certi studenti risultò sorpreso dal fatto che la religione potesse acquistare una vivacità sorprendente di fronte a interrogativi sul significato esauriente dell' esistenza, normalmente ignorato da un punto di vista precario e pur sincero, quale era il loro in quel momento. Domandavo alla Madonna di farmi la grazia di poter mostrare a quei ragazzi in che modo la religiosità raggiunge l' uomo a una profondità inimmaginabile dell' esperienza umana».

E incontrò diffidenze?

«Ricordo ancora, come fosse ieri, la prima esplosione di spregio e di dispetto portata a galla dalla prima domanda a sorpresa, in realtà si trattava di un' obiezione che un ragazzo all' ultimo banco aveva fatto propria dicendo: "Fede e ragione rappresentano due ambiti profondamente differenti, esistenzialmente ostili". Parlò di rette sghembe su piani paralleli che non si sarebbero mai potute incontrare...».

In che modo risponde a obiezioni del genere?

«La mia partenza ha preso le mosse da un modo di guardare le cose come "passione per", come "amore", un atteggiamento di apertura che non lascia partire da soli e mette in moto la vicenda di un rapporto. È impossibile affrontare una situazione in cui c' entra la vita senza che questo contesto operi uno scardinamento, una sorpresa. Se accade questo stupore, diventerà logico l' entusiasmo nel parlare ai ragazzi, tutto l' impegno sarà subordinato al lavoro dell' intelligenza: sarebbe infatti un errore seguire qualcuno senza un perché, nel cervello dell' uomo c' è una chiave di volta che esige la spiegazione del perché. In altre parole, senza la sorpresa della realtà come punto di abbrivio, l' uomo resterebbe bloccato, poco o tanto, dalla pura necessità di fare - ma fare cosa? - e sentirebbe inutile qualsiasi tentativo».

Eppure si dice che l' Europa sia sempre più secolarizzata. Come si può parlare di fede oggi?

«Anzitutto bisognerebbe correggere l' impostazione solita con cui si concepisce la fede. Tutto l' inizio nuovo dell' esperienza cristiana - e quindi di ogni rapporto - non si genera da un punto di vista culturale, quasi fosse un discorso che si applica alle cose, ma avviene sperimentalmente. È un atto di vita che mette in moto tutto. L' inizio della fede non è una cultura astratta ma qualcosa che viene prima: un avvenimento. La fede è presa di coscienza di qualcosa che è accaduto e che accade, di una cosa nuova da cui tutto parte, realmente. È una vita e non un discorso sulla vita, perché Cristo ha cominciato a "balzare" nell' utero di una donna!».

Ed è questo che non si riesce a trasmettere?

«Sì, è questa percezione del cristianesimo e della Chiesa come vita che si è persa negli ultimi secoli e così si è smarrita la possibilità dell' inizio di una risposta alle domande dei giovani. Se manca l' inizio, non c' è l' attacco al problema posto dalla natura dell' uomo: la necessità di una risposta alle esigenze della sua ragione. Per cui parlare della fede ai ragazzi, ma anche ai grandi, è dire un' esperienza e non ripetere un discorso pur giusto sulla religione».

C' è una sorta di diffidenza reciproca tra cultura laica e religiosa?

«Da parte nostra non c' è nessuna diffidenza, ma la fondata coscienza di una situazione assai problematica che trovo espressa da una poesia di Carducci, "Su Monte Mario": fin che ristretta sotto l' equatore / dietro i richiami del calor fuggente / l' estenuata prole abbia una sola / femina, un uomo, / che ritti in mezzo a' ruderi de' monti, / tra i morti boschi, lividi, con gli occhi / vitrei te veggan su l' immane ghiaccia, / sole, calare». Un' immagine desolata... «In queste parole è segnata la fine dell' uomo. È una posizione dovuta alla negatività della concezione di cosa sia l' uomo e a uno sviluppo non completo della sua sensibilità e intelligenza».

Vede anche lei, come dicono alcuni, una tendenza ostile al cattolicesimo in Europa?

«Oggi l'uomo vive una sorta di dispepsia esistenziale, un' alterazione delle funzioni elementari che lo rende diviso, come il rapporto uomo-donna citato da Carducci: quando non si considerano insieme all' origine, sono divisi, due entità separate che non si incontreranno nemmeno alla fine. Può risultare facile concepire ad esempio il prodotto di una pagina d' arte soltanto come l' esito di una propria capacità. Così il lavoro, così l' amore alla donna. E questo è un dato di fatto diffuso».

E invece?

«Ciò che fa diventare diversa la percezione dell' uomo è l' incombente dipendenza che si attribuisce alla natura di ogni cosa prima di partire in ogni impresa: Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente, cantava Leopardi. Così, alla solitudine brutale cui l' uomo chiama se stesso, quasi per salvarsi da un terremoto, si offre come risposta il cristianesimo. Il cristiano trova risposta positiva nel fatto che Dio è diventato uomo: questo è l' avvenimento che sorprende e conforta l' altrimenti malasorte. E per Dio non è concepibile il proprio agire verso l' uomo se non come una "sfida generosa" alla sua libertà. L' obiezione moderna che il cristianesimo e la Chiesa ridurrebbero la libertà dell' uomo è nullificata dall' avventura del rapporto con l' uomo da parte di Dio. E invece, a causa di una idea limitata della libertà, per l' uomo di oggi è inconcepibile pensare che Dio si impegni nell' angustia di un rapporto con l' uomo, quasi negandosi. Questa è la tragedia: l' uomo sembra più preoccupato di affermare la propria libertà che di riconoscere questa magnanimità di Dio, la sola che fissa la misura della partecipazione dell' uomo alla realtà e così lo libera realmente».
di GIAN GUIDO VECCHI
22 febbraio 2005

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