Torino

Da un film su Bonvicini la rivelazione di D'Ursi sul tragico incendio di via Po: "C'ero anch'io"

 Albertino e l'Angelo Azzurro

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ALLA fine ci arriva a Venezia, Albertino. Non per viverci, come aveva sognato spesso, perché Albertino è morto nel 1991. Ma ci arriva insieme agli amici che hanno accettato di ripercorrere la sua storia corta e crudele. E ci arriva portando una rivelazione che, forse, mette il punto su uno degli episodi più dolorosi e controversi della storia di questa città: la tragedia dell'Angelo Azzurro e la morte del diciannovenne Roberto Crescenzio, bruciato vivo il 1° ottobre 1977 durante una manifestazione.

Nello splendido "Fate la storia senza di me" - il documentario dell'esordiente torinese Mirko Capozzoli selezionato per le "Giornate degli autori" della prossima Mostra del Cinema di Venezia - ricordando l'amicizia con Albertino, uno dei protagonisti di quel giorno, Francesco D'Ursi, dichiara: "Partecipiamo all'episodio dell'Angelo Azzurro e siamo condannati per quell'episodio". Né D'Ursi né altre persone coinvolte hanno mai eluso la responsabilità di quei fatti, anche se spesso si è parlato non del tutto a proposito di "omertà" e "solidarietà di cosca", ma è certo la prima volta che qualcuno afferma in una sede pubblica la sua partecipazione all'assalto. Non è solo questo, però, il film, che racconta la vita di Alberto Bonvicini, morto a 33 anni, dopo aver attraversato in maniera dolorosa e convulsa tutte le contraddizioni di un ventennio difficile: gli anni Settanta e Ottanta, quelli che cambiarono alla radice nientemeno che tutto. "Fate la storia senza di me" è la frase con cui Albertino, dopo l'esperienza del carcere, sancì l'abbandono della politica in una lettera scritta proprio a Frankie D'Ursi.
La sua storia inizia in un orfanotrofio: per aver inghiottito una biglia che non vuole cedere a un compagno bullo, Albertino finisce nel manicomio per minori di Villa Azzurra, a Grugliasco. Un incubo affidato alla peggiore incarnazione della psichiatria prebasagliana, Giorgio Coda, inventore dell'elettromassaggio, tortura prolungata inflitta ai genitali e alla testa di chi disturba: "Portami su quello che canta" è la frase che fornì il titolo al libro con cui Alberto Papuzzi svelava l'orrore. Ma quell'orrore si era rovesciato su Albertino: anni di contenzione, torture, anni passati a esercitare il nervo ottico al chiuso di una piccola cella, traguardando dalla serratura. E niente giustizia: Albertino testimonia al processo contro Coda che però, grazie a un cavillo, evita la pena. Intanto il ragazzo è affidato a una famiglia benestante, a cui lo lega un affetto enorme, che però non può tenerlo lontano dalla rabbia, dalla violenza, dalla fuga. È un personaggio ammaliante, per molti versi innocente, bugiardo, irresistibile, carismatico, racconta storie fantastiche e scrive canzoni che stregano le ragazze. Quando Coda viene ferito in un attentato, è lontano dalla città, ma dopo l'Angelo Azzurro ci sono pentiti che lo accusano di entrambi i delitti. In carcere prende la maturità artistica e l'abitudine dell'eroina. Lo salvano le sue capacità: Enrico Deaglio lo vuole al suo nuovo quotidiano, Giuliano Ferrara lo conosce, lo apprezza finisce per amarlo come un figlio. Albertino sarà una colonna delle sue trasmissioni in tv: "Linea Rovente", "Il testimone", "L'Istruttoria". Sembra la svolta, l'arrivo di un'imprevista "normalità", ma nel 1988 si scopre l'Aids, tre anni dopo il suo corpo viene sepolto nel cimitero di Sassi. Ora il suo diario, con la voce di Fabrizio Gifuni, fa da filo rosso al film prodotto da Fourlab e promosso dalla Film Commission torinese (per uno strano cortocircuito della storia a dirigerla è Steve Della Casa che fu accusato a suo tempo dell'azione all'Angelo Azzurro) con cui il giovane Capozzoli corona una ricerca lunga anni, voluta per fare i conti senza ipocrisie con la storia torinese.